IV

1817

Se con la Cantica Appressamento della morte il Leopardi dava voce a una coscienza, ancora incerta e inquieta, della sua situazione infelice e del contrasto fra un’intensa aspirazione alla vita e un sentimento dei limiti in cui viveva, configurato nella sensazione di una morte vicina e precoce, egli mancava ancora di una piú concreta possibilità di chiarificazione dei veri termini del suo dramma e delle sue prospettive ideali, mancava di un vero termine di dialogo con una personalità concreta che potesse permettergli appunto una migliore considerazione e coscienza di se stesso, della sua situazione, di una prospettiva culturale, ideale, letteraria piú sicura.

Un incontro decisivo per la maturazione della personalità leopardiana ebbe luogo nel 1817, anno fondamentale nella formazione del Leopardi, in cui egli entrò in corrispondenza con Pietro Giordani, per poi fare una profonda esperienza dell’opera alfieriana e soprattutto della Vita dell’Alfieri, che diverrà per lui maestro di atteggiamenti ideali e poetici, fondamentali nella sua prospettiva pessimistico-eroica, quale si preciserà, nel 1818, nelle canzoni patriottiche. Mentre, alla fine del 1817, l’esperienza del primo amore (consolidato nell’elegia omonima e nel Diario del primo amore e poi all’inizio del ’18 nell’Elegia II), contribuiva a dare un nuovo avvio al bisogno espressivo e poetico leopardiano. L’incontro epistolare con il Giordani (quello di persona avvenne solo nell’autunno del 1818 e consolidò, con i colloqui piú aperti dei due amici, l’importanza dell’incontro epistolare, sí che poi Monaldo poté attribuire alla visita del Giordani il passaggio del figlio a idee politiche e spirituali cosí diverse dalle proprie) è stato sempre considerato importante nella biografia leopardiana. E il De Sanctis sottolineò l’importanza di quel rapporto epistolare che permetteva al Leopardi di uscire dalla sua solitudine, di esercitare quel «pieno spargimento del cuore» che dava alla stessa prosa dell’epistolario una sincerità e una modernità cosí diversa dal tono piú rigido e puristico della prosa degli scritti degli anni precedenti.

Ma al di là di questa possibilità di confidenza, di apertura, di espansione del cuore e degli affetti del giovane, agevolata dalla sincera simpatia del Giordani, dalla sua umanità e comprensione della grandezza del suo nuovo giovane amico (qualità che il Leopardi non aveva trovato in altri illustri personaggi, come il Mai o il Monti, a cui si era pure rivolto all’inizio del ’17 con il suo ardente bisogno di colloquio), in quell’incontro epistolare il Leopardi trovò un uomo certo piú ricco di idee sollecitanti e attuali di quanto di solito non si sia compreso. Sí che per capire tutta l’importanza dell’incontro epistolare con il Giordani, occorre meglio capire la stessa personalità dello scrittore piacentino, quale può risultare dal bel saggio di Sebastiano Timpanaro «Le idee di Pietro Giordani»[1].

Non che il Giordani non avesse anche pesanti limiti e pregiudizi retorici e pedanteschi (e il Leopardi stesso poté accorgersene reagendo, nelle lettere, all’idea giordaniana che il poeta debba prendere a soggetto solo le cose belle e non tutta la realtà, o all’iter obbligato che, secondo il Giordani, il poeta deve seguire esercitandosi prima nella prosa), ma egli aveva insieme idee assai avanzate in campo politico, ideale, pedagogico, mentre nella sua stessa strenua prospettiva letteraria e stilistica una frase come questa («la coscienza letteraria non è meno facile ad infuscarsi, ad illudersi che la morale») implicava pure un forte sentimento della coscienza morale necessaria allo scrittore. E all’educazione di quel «perfetto scrittore» (le cui possibilità egli chiaramente riconobbe nel giovane amico), il Giordani riteneva essenziali non solo una profonda cultura letteraria e linguistica (specie della lingua e letteratura del Trecento, del Cinquecento e dei greci: in una direzione molto seguita dal Leopardi), ma insieme una cultura scientifica e storica; e per la storia credeva che occorresse anzitutto partire dalla profonda conoscenza della storia contemporanea, dei propri tempi. Mentre nella sua prospettiva letteraria e classicistica egli avversava decisamente l’oziosa tendenza degli italiani a far versi e sonetti senza necessità ispirativa e in sostituzione di studi piú concreti e utili[2] e condannava duramente quel tipo di sterile esercitazione di componimenti in latino, caratteristica dell’educazione gesuitica:

Reputo stoltissima e dannosissima (e in molti maligna) pedanteria il far comporre o tradurre in latino; che è proprio un rovesciamento di cervello. E per Iddio tutti questi compositori e traduttori in latino son quelli che meno intendono il valor vero dei classici latini. E a chi poi si scriverà latino oggidí? Ai dannati nell’Inferno; perché sulla terra pochi oggi lo intendono, e nessuno ne abbisogna. L’importante è l’intenderli bene, i classici: e questo è oggi rarissimo.

Oh legislatori, i quali non intendevano che voler parlare familiarmente una lingua morta non è meno stolto che parlare a’ morti![3]

E del resto persino la sua entusiastica ammirazione per la lingua e per gli scrittori del Trecento era da lui spesso giustificata col fatto che quegli scrittori avevano mostrato amorevole cura del popolo, avevano cooperato a farlo partecipare ai diletti e agli utili della dottrina.

Preoccupazione sociale e nazionale che riconduce alle idee politiche giordaniane, chiaramente nazionali, liberali e risorgimentali, decisamente avverse alla Santa Alleanza e alla Restaurazione (e per tali idee egli subí prigionia e persecuzioni). Cosí come egli era violentemente anticlericale e legato a idee di origine illuministica.

Né queste idee (che in parte il Leopardi veniva conoscendo attraverso la lettura di scritti giordaniani) furono espresse al giovane amico solo nei giorni di confidente diretto colloquio del ’18. Ché, a scorrere lo scambio epistolare del ’17 ben si avvertono nelle lettere del Giordani chiari accenni alle sue idee nazionali e politiche, a cominciare dalla lettera del 12 marzo in cui si parla della «povera Italia», della sua decadenza, della decadenza degli studi e della stoltissima speranza nei principi[4]. Mentre nelle lettere leopardiane si infittiscono gli accenti patriottici e antitirannici, come anche gli accenni ironici sui «devoti».

Tutto il mondo ideale leopardiano entra in un nuovo e forte movimento e il Leopardi, attraverso il dialogo e lo sfogo dell’animo, viene chiarendo a se stesso la sua situazione nel contrasto fra i suoi ideali, il suo desiderio di vita e i limiti ostili della casa paterna, di Recanati, dello Stato Pontificio. Si ripensi alla lettera del 30 aprile, con la dura diagnosi della sua situazione, o alla lettera del 14 luglio piena di note drammatiche sulla sua solitudine, immobilità, prigionia, sulla sua «infelicissima e orrenda vita»[5].

Strettamente legati all’esaltazione patriottica dell’Italia (per la quale «io voglio spendere tutta la mia vita») e ai temi dell’aspirazione alla gloria e a una vita attiva e intensa, colpiscono nelle lettere al Giordani del ’17 anche i frequenti accenni all’Alfieri, chiamato «sommo italiano», «il mio Alfieri», di cui si ricordano i «santi» detti, in una accesa atmosfera di affetto e di vicinanza che presupponeva il simile culto alfieriano del Giordani. Mentre nella stessa prosa dell’epistolario si avverte, in certe espressioni violente ed esaltate (come quando il Leopardi parla del suo «sviscerato amor di patria» o della sua «smania violentissima di comporre» oppure di «orribili malinconie» o di desideri «caldissimi e ardentissimi» o di affetti «sublimissimi») la chiara presenza di simili forme alfieriane, soprattutto della Vita.

Ma al di là delle lettere, prove della profonda incidenza della lettura alfieriana nella formazione leopardiana, alla fine del ’17, sono un sonetto scritto nel novembre[6] e quel Diario del primo amore, di cui piú direttamente riparleremo nella presentazione dell’attività artistica di questo periodo.

Il sonetto è la riprova piú evidente dell’appassionata lettura leopardiana della autobiografia alfieriana, da cui il giovane ricava un confronto doloroso fra la vita dell’Alfieri, avversata pur essa dalla sorte, ma coronata dall’attività poetica e dalla gloria, e la propria, destinata a una morte precoce (secondo il presentimento della Cantica Appressamento della morte) e priva quindi di svolgimento e di opere che le assicurino la fama.

Certo ben piú interessante è quanto piú duraturamente il Leopardi ricaverà dalla lezione alfieriana e quanto già in questo periodo egli ne ricava nella composizione del Diario del primo amore[7].

Le pagine diaristiche nascono appunto sotto la suggestione alfieriana del bisogno di autoanalisi per meglio conoscer se stesso, e riprendono lo schema scheletrico del «Primo amoruccio» della Vita, estendendolo in una prosa analitica che si avvale di chiare indicazioni alfieriane (l’abbondanza di diminutivi autoironici e graduanti: «doloretto acerbo», «piaceruzzi», «nebbietta di malinconia», «favilluzza», «piaghetta rimasa mezzo saldata», in contrasto con espressioni superlative, estreme: «votissima giornata», «riarderanno violentissime», «scontentissimo e inquieto», «orecchio avidissimamente teso», «giorni smaniosissimi», e con la fisicizzazione degli stati di animo: «rintuzzato», «rannicchiato in me stesso») e raccoglie essenziali motivi alfieriani sui temi dell’amore (incentivo indispensabile di opere e di grandezza) e del rapporto amore-studi, amore-poesia, amore-azione; sull’ansia del sorgere e modificarsi dei sentimenti; sulla propria natura eroica e votata alla grandezza e singolarità, e sulla via piú sottile del valore del ricordo nello scatto del suo risorgere improvviso e nella sua forza maggiore rispetto al sentimento presente; e ancora sul tema del rapporto fra musica e sentimento malinconico, che il Leopardi riprenderà nello Zibaldone secondo la precisa direzione alfieriana.

E dietro questi documenti piú espliciti di un preciso momento alfieriano (Il primo amore diluisce la forza dell’incontro in un impasto di toni ed echi letterari diversi e nella fallita ricerca di una prospettiva piú petrarchesca di distanza patetica), una minuta ricerca entro lo Zibaldone, le lettere, i Canti (qui esemplificati in forma essenziale) mostra la forte incidenza alfieriana (della Vita anzitutto, ma anche delle tragedie, delle rime, dei trattati etico-politici, delle satire) nella formazione e nello svolgimento leopardiano. Senza con ciò volere forzare il Leopardi in uno schema di rigida dipendenza alfieriana, senza negare affatto la fortissima originale differenza tra Leopardi e Alfieri, segnata, in parte, dal noto pensiero dello Zibaldone che indagando sugli uomini di singolare carattere rileva, in vicinanza e differenza, l’esemplarità di Alfieri tutto “natura” ripugnante a ogni adattamento e conformismo, e quella di Rousseau nella sua maggiore timidezza e debolezza[8] (ma non è detto poi che Leopardi si identifichi senz’altro con Rousseau) e senza tacere il fatto che a volte l’influenza alfieriana, forte specie nella zona delle canzoni-odi, spinge il Leopardi a toni piú aspri e atteggiati («E rifugio non resta altro che il ferro»)[9], bisognosi come di una rettifica piú interna e di un consolidamento espressivo piú denso e musicale. Ché il Leopardi ha una voce piú fusa (pur calcolando la misura altissima della Mirra) di quella alfieriana e nella stessa poesia eroica degli ultimi canti ha una fermezza piú semplice e “schietta”, un afflato lirico piú complesso, un livello storico-linguistico ben diverso; del resto, quella poesia nasce da una problematica piú matura e da una personalità piú ricca e complessa, da un’esperienza intellettuale e culturale tanto piú vasta e profonda di quella un po’ rattratta e povera dell’Alfieri.

Ma, al fondo, e sulla base di partenza del ’17, c’è pure una congenialità (fra vera e desiderata) e un’attrazione potente degli elementi di eroismo, di coraggio, di incrollabile ispirazione morale dell’uomo-poeta che fu maestro e «fratello maggior» del Leopardi in quel periodo decisivo, quando tutte le forze del giovane recanatese cominciano a mettersi in movimento fra le prime riflessioni dello Zibaldone, l’autoanalisi del Diario, le canzoni patriottiche, le canzoni rifiutate del ’19, i primi idilli; e in quel folto intreccio il poeta mostrava la ricchezza delle sue tensioni, la loro interna correlazione, la loro radice di energia e il loro comune impianto morale e attivo.

E già sullo scorcio del ’17, la lettura della Vita alfieriana offriva al Leopardi lo schema eroico del letterato moderno uomo libero, a cui egli fu fedele sino alla morte, sollecitava la definitiva rottura non dell’alto senso rettorico-stilistico, rafforzato dalle discussioni col Giordani, ma di una concezione letteraria di origine umanistico-gesuitica, e della crosta reazionaria di origine monaldesca, liberando il senso della patria e della libertà dai margini “di restaurazione” fino allora resistenti e insieme, piú in profondo, sollecitava un senso di delusione e scontentezza a vari livelli, da quello storico-attuale patriottico a quello esistenziale (si ripensi al trinomio de «la sazietà, la noia, il dolore» della Vita) e la tensione all’infinito che trovava appoggi alfieriani nello Zibaldone e si alimentava delle sensazioni di silenzio e di immensità fermate dall’Alfieri in alcuni celebri passi della Vita. Come le pagine del viaggio in Svezia («un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi di esser fuor del globo»), o quella celebre di Marsiglia:

Mi era venuto trovato un luoghetto graziosissimo ad una certa punta di terra [...] dove sedendomi su la rena con le spalle addossate a uno scoglio ben altetto che mi toglieva ogni vista della terra da tergo, innanzi ed intorno a me non vedeva altro che mare e cielo; e cosí fra quelle due immensità abbellite anche molto dai raggi del sole che si tuffava nell’onde, io mi passava un’ora di delizie fantasticando […][10]

E quest’ultimo passo, pur connesso con tante altre possibili sollecitazioni di altre letture fatte dal Leopardi in quegli stessi anni (come può essere il caso, oltre a quelle dello Young già ricordate e di altri scrittori, di certi slanci immaginosi e metafisici del Mazza), dovette agevolare, per analogia e per contrasto, l’idea del limite e dell’immensità durante la concezione dell’Infinito.

Né, ripeto, può trascurarsi la frequenza di presenze dirette o indirette dell’Alfieri nello Zibaldone: solo per ricordarne alcune, l’assimilazione dei martiri cristiani agli eroi antichi, chiaro riflesso di note affermazioni di Del principe e delle lettere; l’affermazione della propria ostilità all’affettazione che ricorda, nella Vita alfieriana, l’antipatia per l’affettazione dei romanzi di Rousseau; l’elogio dell’eroica costanza di evidente ascendenza alfieriana; le riflessioni sulla licenza della rivoluzione francese e i numerosi motivi misogallici con il connesso motivo alfieriano dell’odio per lo straniero, necessario all’amor di patria; le riflessioni sulla mancanza di arte critica in Italia appoggiate a un passo alfieriano; quelle sul rapporto fra amor proprio ed egoismo, sulla tirannia e sul rapporto tirannia-cristianesimo (che rimandano a echi della Tirannide); la designazione del secolo impoetico, che richiama, con complesse diramazioni, il centro polemico del Parere sul Saul circa il secolo «niente poetico, e tanto ragionatore»[11]; e le citazioni di giudizi alfieriani sulla Bibbia e Omero; e i passi sul ritorno di una sensazione, quelli citati sulla velocità e l’infinito, sulla letteratura e la libertà. Il quale ultimo si collega alle troppo note allusioni ad Alfieri nell’Ottonieri e nel Parini, in anni ormai lontani dal piú diretto incontro alfieriano del ’17 e che confermano la persistenza della esemplarità alfieriana nella mente del Leopardi.

Ma, per stare alla poesia leopardiana, specie fra il ’18 e il ’22, nelle canzoni, nelle canzoni-odi e nelle parti piú tese dell’Inno ai Patriarchi, sarà anzitutto da rilevare la natura alfieriana di tanti accordi di aggettivo-nome nelle poesie leopardiane di quell’epoca nelle due gamme (soprattutto nella seconda) di indicazioni di valori e disvalori, opposte e divaricate all’estremo, alla cui radice è la ripresa leopardiana del contrasto eroico-pessimistico alfieriano in forme tanto piú complesse e articolate in schemi intellettuali potenti: natura-ragione, antichi-moderni, passato glorioso e presente scaduto e corrotto, illusioni-arido vero; e, poi, uomo-natura malvagia, uomo consapevole della situazione umana e secolo frivolo e sciocco nello sviluppo piú tardo, ma non privo di coerenza in questa forma di energica appassionata contrapposizione. Sicché proprio ripresentando alla rinfusa espressioni leopardiane e alfieriane simili, mal si saprebbero distinguere le riprese dirette dalle alterazioni leopardiane: «memorando ardimento», «intatto costume», «generosi e santi detti degli avi», «ceneri sante», «santa fiamma di gioventú», «ozio turpe», «immondo livor privato e dei tiranni», «codarda etate», «obbrobriosa etate», «luttuosi tempi», «empio fato», «corrotto costume», «schiatta ignava», «voglie indegne», «vergognosa età», «imbelle prole», «abbietta gente», «perversa mente», «infausti giorni», «secol morto» ecc.

E al di là di queste espressioni c’è tutto un rinforzo di motivi leopardiani a base alfieriana (si pensi, nell’Ad Angelo Mai all’elogio delle illusioni e, per Alfieri, alla Virtú sconosciuta o alla lettera alla Mocenni-Regoli sulla morte del Bianchi o ai versi della Congiura de’ Pazzi: «Dell’infame letargo, in cui sepolti / tutti giacete, o neghittosi schiavi» – At. III, sc. 2, vv. 132-133 – per non dire della figura eroica dello stesso Alfieri riplasmata con una chiara mimesi di modi alfieriani e della figura di Dante, eroe alfieriano «Non domito nemico / della fortuna») e una esperienza di linguaggio fortemente energico e sintetico (sino alla durezza e alla rigidità di certi apoftegmi alfieriani meno fusi nel linguaggio piú vario e denso del Leopardi) e di una energia intima, di una invincibile ansia morale ed eroica, di un anelito alla purezza e alla vita generosa che si traduce nelle due canzoni rifiutate del ’19 nel disprezzo del “mondo” e anche nell’orrore alfieriano-leopardiano per la vecchiaia, per la «nefanda vecchiezza», scuola di compromessi e viltà come già si configurava nel rapporto Guglielmo-Raimondo della Congiura de’ Pazzi (una delle tragedie alfieriane piú atte a rafforzare in Leopardi il nesso fra servire politico e sofferenza morale ed esistenziale).

E se le due strofe alfieriane dell’Ad Angelo Mai e tutta la canzone Nelle nozze della sorella Paolina (piena di riprese della Virginia, ma anche del Bruto primo e del saggio Del principe e delle lettere) sono le punte piú aperte dell’alfierismo leopardiano, esse non possono essere isolate dalle sollecitazioni alfieriane dell’eroico disprezzo della vita nell’A un vincitore nel pallone o dell’impostazione tragica dei personaggi nel Bruto minore e dei suoi nuclei educati dall’Alfieri da cui derivano insieme precise definizioni dello stesso personaggio («molle di fraterno sangue», come il Polinice della tragedia omonima): la decisione eroica del suicidio, l’accusa agli «inesorandi numi», al «fato reo» (cui si contrappone la strenua e sfortunata guerra del “prode”), a Giove che indifferente colpisce i giusti e gli empi come il Geova saulliano che «nell’alta ira tremenda / ravvolto egli ha coll’innocente il reo» (At. I, sc. 2, vv. 164-165). Cosí, come la «tiranna destra» del fato, esercitata sugli uomini «infermi schiavi di morte», non può non richiamare la “terribil destra” del Dio vendicativo del Saul. E lo stesso originalissimo Ultimo canto di Saffo (originalissimo e insieme cosí gremito di voci adiuvanti diverse, preromantiche e romantiche) ha non solo echi alfieriani particolari («disperati affetti»), o su altra direzione echi della voce di Micol: «vivi; vivi, se il puoi» (Saul, At. V, sc. 1, v. 34); di Carlo del Filippo: «ogni mia cura asperge / di dolce oblio» (At. I, sc. 2, vv. 44-45); o della voce di Mirra: «io disperatamente amo, ed indarno» (At. V, sc. 2, v. 139), ma lo stesso nucleo della donna, innocente vittima di un cielo crudele, richiama i noti versi della Mirra («se forza di destino, ed ira / di offesi Numi a un lagrimar perenne / la condanna innocente», At. V, sc. 1, vv. 22-24) e riprospetta, a livello piú profondo, il problema del rapporto Alfieri-Leopardi, in un diagramma vasto di posizioni centrali storiche e liriche. Ché insomma, con un appoggio di temi laterali e un accordo sul fondo della sensibilità esistenziale (la noia, il vuoto della vita di tante rime e di tante lettere alfieriane), nella denuncia e protesta leopardiana, già nelle forme del Bruto minore e dell’Ultimo canto di Saffo, rifluiva, trasvalorato personalmente e storicamente, il senso piú profondo della tragedia alfieriana, che era, a sua volta, la centrale intuizione tragica sollecitata dalla crisi dell’illuminismo nella nascita del romanticismo.

Leopardi portava quell’intuizione tragica a un significato di estrema risolutezza (superando dal centro i faticosi tentativi di accordo fra il suo “sistema” e il cristianesimo operati a lungo nello Zibaldone), la liberava dai pericoli di ripiegamento spiritualistico non mancanti nell’ultimo Alfieri (voltando insieme le spalle alle soluzioni positive foscoliane, ché Foscolo vale per Leopardi solo nello zibaldone drammatico dell’Ortis), la riviveva originalmente dall’interno di tutte le sue esperienze vitali, speculative, poetiche in una nuova dimensione e in un nuovo rapporto storico, in cui egli diversamente da Alfieri (e con una diversa struttura intellettuale e culturale) avrebbe ripreso la lotta illuministica contro i miti portandola alla conclusione del messaggio consapevole e virile della Ginestra.

Anche al di là del periodo indicato si possono trovare tracce sparse della profonda lettura alfieriana. Se ne trovano nell’epistola Al conte Carlo Pepoli, in cui l’avvio («Questo affannoso e travagliato sonno / che noi vita nomiam») riprende un grande verso della Congiura de’ Pazzi («In questa morte, che nomiam noi vita», At. V, sc. 1, v. 74). Se ne ritrovano sparsamente in coincidenza con movimenti elegiaci intensi di cui pure era ricco l’Alfieri, nelle Ricordanze, in cui un movimento sintattico lirico, intorno al tema della giovinezza, richiama un passo dell’Alceste; o, piú tardi, nell’elegiaco e febbrile Consalvo, dove si possono cogliere echi del Filippo, dell’Alceste, della Sofonisba (in coincidenza con l’elemento patetico-doloroso teso fino al piacere del martirio e al compiacimento della morte consolata dall’amore); o nella prima sepolcrale, dove lo stimolo di tante rime alfieriane circa la impossibilità di sopravvivere, amando, alla persona amata si realizza in uno dei piú lucidi e tesi sviluppi lirici dell’ultimo Leopardi, in forma di piú decisa protesta; o in Amore e Morte, in cui l’invocazione alla morte recupera un preciso appoggio alfieriano dalla tensione di Mirra verso la morte («O Morte, Morte, / cui tanto invoco», At. V, sc. 2, vv. 130-131) e l’erezione eroica del poeta («Erta la fronte, armato») può richiamare «Ignudo il volto, e tutto il resto armato» del sonetto-testamento alfieriano (Uom, di sensi, e di cor, libero nato, v. 4), da cui ritornerà un’allusione profonda nella Ginestra. Ma certo la lezione alfieriana, di cui viveva ancora il fascino e la consonanza recuperata in momenti supremi, si era ormai risolta piú sicuramente entro la rinnovata prospettiva di persuasione eroica del Leopardi; e anche certe forme, sollecitate dall’esperienza alfieriana (come il «fetido» orgoglio e il «vigliaccamente» che vengono dalle Satire), si son fuse senza macchia entro l’energico, spregiudicato linguaggio dell’ultimo Leopardi.

Ma ritorniamo al preciso momento della fine del ’17 quando, nell’accesa atmosfera alfieriana, nell’urgere sentimentale personale, accresciuto dall’esercizio di sfogo e di colloquio con il Giordani, si inserisce la breve vicenda del “primo amore”. Vicenda ed esperienza che venne ad arricchire l’ardente tensione a una vita attiva, fervida di opere, di azioni, di affetti, quale già si era pronunciata nel corso dello scambio epistolare con l’amico piacentino.

L’amore è sentito (con la forte suggestione alfieriana già ricordata) come sentimento alto e nobilitante, come prova, per il giovane, di una propria natura sensitiva e nobile, di una propria vocazione alla grandezza e all’eccezionalità. Come il Leopardi dirà con chiara allusione a quella esperienza, in una lettera al Giordani del 16 gennaio 1818:

È un pezzo, o mio caro, ch’io mi reputo immeritevole di commettere azioni basse, ma in questi ultimi giorni ho cominciato a riputarmi piú che mai tale, avendo provato cotal vicenda d’animo, per cui m’è parso d’accorgermi ch’io sia qualcosa meglio che non credeva, e ogni ora mi par mille, o carissimo, ch’io v’abbracci strettissimamente, e versi nel vostro il mio cuore, del quale oramai ardisco pur dire che poche cose son degne. [...] Ha sentito qualche cosa questo mio cuore per la quale mi par pure ch’egli sia nobile, e mi parete pure una vil cosa voi altri uomini, ai quali se per aver gloria bisogna che m’abbassi a domandarla, non la voglio; ché posso ben io farmi glorioso presso me stesso, avendo ogni cosa in me, e piú assai che voi non mi potete in nessunissimo modo dare.[12]

A tradurre artisticamente l’esperienza dell’amore provato per la cugina Gertrude Cassi di Pesaro, venuta in breve visita in casa Leopardi, Giacomo tentò parallelamente due tipi di espressione: la forma piú sintetica e lirica della poesia (Il primo amore) e quella piú analitica della prosa (Diario del primo amore).

Parliamo anzitutto di questa seconda forma in prosa nella quale il Leopardi segue minutamente, con una scrittura introspettiva, acuta, lucida e sensibile, sottilmente graduata, le vicende esteriori e interiori della sua nuova esperienza, recuperando, attraverso l’esempio dell’Alfieri, tutta una scuola di analisi psicologica che si riconduce, a ritroso, a forme di prosa settecentesca fra romanzesca e memorialistica.

Ne risulta un documento di singolare finezza e acutezza di cui possono essere efficacissimo esempio le prime pagine:

Io cominciando a sentire l’impero della bellezza, da piú d’un anno desiderava di parlare e conversare, come tutti fanno, con donne avvenenti, delle quali un sorriso solo, per rarissimo caso gittato sopra di me, mi pareva cosa stranissima e maravigliosamente dolce e lusinghiera: e questo desiderio nella mia forzata solitudine era stato vanissimo fin qui. Ma la sera dell’ultimo Giovedí, arrivò in casa nostra, aspettata con piacere da me, né conosciuta mai, ma creduta capace di dare qualche sfogo al mio antico desiderio, una Signora Pesarese nostra parente piú tosto lontana, di ventisei anni, col marito di oltre a cinquanta, grosso e pacifico, alta e membruta quanto nessuna donna ch’io m’abbia veduta mai, di volto però tutt’altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne, e, secondo me, graziose, lontanissime dalle affettate, molto meno lontane dalle primitive, tutte proprie delle Signore di Romagna e particolarmente delle Pesaresi, diversissime, ma per una certa qualità inesprimibile, dalle nostre Marchegiane. Quella sera la vidi, e non mi dispiacque; ma le ebbi a dire pochissime parole, e non mi ci fermai col pensiero. Il Venerdí le dissi freddamente due parole prima del pranzo: pranzammo insieme, io taciturno al mio solito, tenendole sempre gli occhi sopra, ma con un freddo e curioso diletto di mirare un volto piú tosto bello, alquanto maggiore che se avessi contemplato una bella pittura. Cosí avea fatto la sera precedente, alla cena. La sera del Venerdí, i miei fratelli giuocarono alle carte con lei: io invidiandoli molto, fui costretto di giuocare agli scacchi con un altro: mi ci misi per vincere, a fine di ottenere le lodi della Signora (e della Signora sola, quantunque avessi dintorno molti altri) la quale senza conoscerlo, facea stima di quel giuoco. Riportammo vittorie uguali, ma la Signora intenta ad altro non ci badò; poi lasciate le carte, volle ch’io l’insegnassi i movimenti degli scacchi: lo feci ma insieme cogli altri, e però con poco diletto, ma m’accorsi ch’Ella con molta facilità imparava, e non se le confondevano in mente quei precetti dati in furia (come a me si sarebbero senza dubbio confusi) e ne argomentai quello che ho poi inteso da altri, che fosse Signora d’ingegno. Intanto l’aver veduto e osservato il suo giuocare coi fratelli, m’avea suscitato gran voglia di giuocare io stesso con lei, e cosí ottenere quel desiderato parlare e conversare con donna avvenente: per la qual cosa con vivo piacere sentii che sarebbe rimasa fino alla sera dopo. Alla cena, la solita fredda contemplazione. L’indomani nella mia votissima giornata aspettai il giuoco con piacere ma senza affanno né ansietà nessuna: o credeva che ci avrei trovato soddisfazione intera, o certo non mi passò per la mente ch’io ne potessi uscire malcontento. Venuta l’ora, giuocai. N’uscii scontentissimo e inquieto. Avea giuocato senza molto piacere, ma lasciai anche con dispiacere, pressato da mia madre. La Signora m’avea trattato benignamente, ed io per la prima volta avea fatto ridere colle mie burlette una dama di bello aspetto, e parlatole, e ottenutone per me molte parole e sorrisi. Laonde cercando fra me perché fossi scontento, non lo sapea trovare. Non sentia quel rimorso che spesso, passato qualche diletto, ci avvelena il cuore, di non esserci ben serviti dell’occasione. Mi parea di aver fatto e ottenuto quanto si poteva e quanto io mi era potuto aspettare. Conosceva però benissimo che quel piacere era stato piú torbido e incerto, ch’io non me l’era immaginato, ma non vedeva di poterne incolpare nessuna cosa. E ad ogni modo io mi sentiva il cuore molto molle e tenero, e alla cena osservando gli atti e i discorsi della Signora, mi piacquero assai, e mi ammollirono sempre piú; e insomma la Signora mi premeva molto: la quale nell’uscire capii che sarebbe partita l’indomani, né io l’avrei riveduta. Mi posi in letto considerando i sentimenti del mio cuore, che in sostanza erano inquietudine indistinta, scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e desiderio non sapeva né so di che, né anche fra le cose possibili vedo niente che mi possa appagare. Mi pasceva della memoria continua e vivissima della sera e dei giorni avanti, e cosí vegliai sino al tardissimo, e addormentatomi, sognai sempre come un febbricitante, le carte il giuoco la Signora [...][13]

Sono pagine di singolare finezza e mostrano uno scrittore capace di una estrema lucidità e sensibilità nel cogliere e rendere la complessa, ambigua genesi di un sentimento, le sfumature della vicenda e dei suoi riflessi nell’animo del protagonista, le sottili gradazioni del passaggio dalla fredda contemplazione della bellezza all’inquietudine, alla scontentezza e poi all’intenerimento amoroso e al sogno lucido e febbricitante con cui gli ricompaiono i termini della vicenda vissuta.

Cosí come tutto il breve testo, al di là di queste prime pagine esemplari, si muove con densità e sinuosità, con un alternarsi sapiente e intimo dei sentimenti contrastanti, con un giuoco morbido e sottilissimo: con un controllo acutissimo dello svolgersi e maturarsi di un sentimento che implica, nelle sue pieghe, tutto un manifestarsi di meditazioni e di intuizioni sulla propria vita interiore: prima l’accendersi dell’amore, poi un suo lento attenuarsi e indebolirsi, poi il riaffiorare improvviso e piú intenso, scatenato da piccole occasioni, poi il consolidarsi finale e l’assicurazione della profondità e validità di questa eccezionale esperienza che costituisce per lo scrittore la prova della propria disposizione a vivere di sentimenti alti e nobili, della eccezionalità della propria natura aperta alla grandezza, destinata ad azioni generose e a opere poetiche.

Come il Leopardi avverte nel finale:

Del resto tanto è lungi ch’io mi vergogni della mia passione, che anzi sino dal punto ch’ella nacque, sempre me ne sono compiaciuto meco stesso, e me ne compiaccio, rallegrandomi di sentire qualcheduno di quegli affetti senza i quali non si può esser grande, e di sapermi affliggere vivamente per altro che per cose appartenenti al corpo, e d’essermi per prova chiarito che il cuor mio è soprammodo tenero e sensitivo, e forse una volta mi farà fare e scrivere qualche cosa che la memoria n’abbia a durare, o almeno la mia coscienza a goderne, molto piú che l’animo mio era ne’ passati giorni, come ho detto, disdegnosissimo delle cose basse, e vago di piaceri tra dilicatissimi e sublimi, ignoti ai piú degli uomini.[14]

Ma accanto a questo documento di prosa cosí efficace, coerente e promettente sulla via della futura prosa leopardiana (nonché cosí importante, come dicevamo, per l’incontro con la lezione alfieriana e per lo sviluppo della personalità leopardiana tra scavo di sensibilità, introspezione nel suo mondo sentimentale e prospettive di volontà, di attività e di grandezza), il Leopardi volle anche tentare la prova piú ardua della poesia, assecondando la spinta che lo portava ormai al di là delle traduzioni e a una volontà di poesia propria, ricavata dai propri affetti e dalle proprie vicende, sulla via già tentata nella Cantica Appressamento della morte.

Ne nacque quel Primo amore che il Leopardi raccoglierà nel volume dei Canti come primo documento intero della sua capacità poetica giovanile e di una esperienza considerata essenziale nello sviluppo della sua vicenda vitale[15]. Si tratta di un tentativo impegnativo e di un documento tutt’altro che esterno e inerte, in cui il Leopardi intendeva riprendere l’argomento, analiticamente trattato nel Diario del primo amore, in una forma piú sintetica e lirica, prospettando la vicenda dell’innamoramento e della partenza della donna amata in una dimensione di passato rievocato, distanziandola attraverso il ricordo con un certo sforzo che agisce negativamente sul risultato della poesia.

E certo, mentre nel Diario del primo amore tutto era condotto sull’appoggio adiuvante e coerente di certa prosa alfieriana e di certa esperienza romanzesco-memorialistica settecentesca, nella poesia il Leopardi cerca appoggi letterari piú vari: dal Petrarca (da cui riprende sia l’avvio: «Tornami a mente», che è nel componimento CCCXXXVI del «Canzoniere», sia la spinta a certo concettismo pesantemente presente, ad esempio, nella terzina ai vv. 37-39), dalle cadenze melodrammatiche metastasiane, o da certa immaginosità montiana, o da chiari spunti e moduli pariniani nella direzione della rappresentazione lirico-realistica della vicenda della partenza dell’amata nella parte centrale della lirica:

Senza sonno io giacea sul dí novello,

e i destrier che dovean farmi deserto,

battean la zampa sotto al patrio ostello.

Ed io timido e cheto ed inesperto,

ver lo balcone al buio protendea

l’orecchio avido e l’occhio indarno aperto,

la voce ad ascoltar, se ne dovea

di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse;

la voce, ch’altro il cielo, ahi, mi togliea.

Quante volte plebea voce percosse

il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,

e il core in forse a palpitar si mosse!

E poi che finalmente mi discese

la cara voce al core, e de’ cavai

e delle rote il romorio s’intese;

orbo rimaso allor, mi rannicchiai

palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,

strinsi il cor con la mano, e sospirai. (vv. 40-57)

In questo contesto le riprese pariniane rimangono come macchie vistose, mentre l’impegno realistico urta con le forme piú elegiache e melodrammatiche. E nel resto della poesia troppi motivi, tanto meglio graduati e svolti nel Diario del primo amore, si affollano piú tumultuosamente, né ben si risolve l’urgenza di sentimenti troppo presenti nella prospettiva di distanza e di distacco voluta attuare attraverso la rievocazione e il ricordo.

Infine anche un altro tentativo interessante in questa poesia non riesce a fusione sicura: il tentativo di fare insieme poesia di immaginazione e poesia sentimentale attraverso le numerose similitudini, in cui l’immagine finisce quasi sempre per sopraffare la base sentimentale, per isolarsi e spiccare piú del dovuto. Come può vedersi nei seguenti versi:

Oh come soavissimi diffusi

moti per l’ossa mi serpeano, oh come

mille nell’alma instabili, confusi

pensieri si volgean! qual tra le chiome

d’antica selva zefiro scorrendo,

un lungo, incerto mormorare ne prome. (vv. 28-33)

O come di fatto avviene anche nei confronti di quella suggestiva immagine della pioggia tanto superiore all’esigua base sentimentale:

E lunga doglia il sen mi ricercava,

com’è quando a distesa Olimpo piove

malinconicamente e i campi lava. (vv. 64-66)

Diversamente prospettata la vicenda del primo amore riappare nell’Elegia II[16] probabilmente del luglio 1818 (poi rifiutata dal poeta che ne salvò un breve frammento, il numero XXXVIII dei Canti), in cui il Leopardi tenta una forma di aggressione brusca e drammatica dell’argomento, immaginando di avere rivisto la donna amata e di soffrire disperatamente per il rinnovarsi della sua partenza e dando voce convulsa ed eccitata a tale disperazione che lo porta al desiderio dell’annullamento, della morte:

Dove son? dove fui? che m’addolora?

Ahimè ch’io la rividi, e che giammai

non avrò pace al mondo insin ch’io mora.

Che vidi, o Ciel, che vidi, e che bramai!

Perché vacillo? e che spavento è questo?

Io non so quel ch’io fo, né quel ch’oprai.

Fugge la luce, e ’l suolo ch’i’ calpesto

ondeggia e balza, in guisa tal ch’io spero

ch’egli sia sogno e ch’i’ non sia ben desto. (vv. 1-9)

Tutto il componimento, con le sue interrogazioni brusche e incalzanti (che fan pensare anche a una lettura di sonetti foscoliani minori con i loro inizi ex abrupto), con le sue esclamazioni disperate, con le invocazioni a una natura tempestosa, con i suoi versi spesso rotti e irti di suoni aspri e disarmonici («Or prorompi o procella, or fate prova / di sommergermi o nembi», vv. 49-50), corrisponde a questa volontà di un’espressione drammatica estrema che ha una sua coerenza nella tensione eccitata ed eccessiva e un suo interesse (piú di documento che di risultato) sulla via di una crescente tensione sentimentale, di un urgere di ansia espressiva confusa che sembra superare la semplice occasione amorosa e che si ritrova poi nell’ingorgo piú generale di coscienza della propria situazione, di volontà, di attività e di poesia, in alcuni argomenti e abbozzi in prosa di altre elegie progettate alla metà del 1818.

Fra queste, che documentano anche la nuova presenza di letture di testi importanti (come il Werther e l’Ortis), particolarmente interessante è l’argomento secondo scritto evidentemente nel compleanno del 29 giugno 1818:

Oggi finisco il ventesim’anno. Misero me che ho fatto? Ancora nessun fatto grande. Torpido giaccio tra le mura paterne. Ho amato te sola[17], O mio core. ec. non ho sentito passione non mi sono agitato ec. fuorché per la morte che mi minacciava. ec. Oh che fai? Pur sei grande ec. ec. ec. Sento gli urti tuoi ec. Non so che vogli, che mi spingi a cantare a fare né so che, ec. Che aspetti? Passerà la gioventú e il bollore ec. Misero ec. E come piacerò a te[18] senza grandi fatti? ec. ec. ec. O patria o patria mia ec. che farò non posso spargere il sangue per te che non esisti piú. ec. ec. ec. che farò di grande? come piacerò a te? in che opera per chi per qual patria spanderò i sudori i dolori il sangue mio?[19]

Sullo stimolo del compleanno («Oggi finisco il ventesim’anno»), il Leopardi è indotto a riepilogare tumultuosamente i termini della sua situazione, nel contrasto fra l’inerzia forzata («Torpido giaccio tra le mura paterne») e il bisogno di azioni grandi e di poesia, raccordato al tema amoroso e a quello patriottico-politico che si intrecciano fra loro in una prospettiva ardente e disperata, fra volontà e delusione. E si noti, per il tema patriottico, l’estrema forza di quella espressione diretta all’Italia: «per te che non esisti piú», rivelazione di questa estrema delusione storica che dissolve ogni residuo di illusioni sulla Restaurazione e la Santa Alleanza e fa tanto capire come le canzoni patriottiche dell’autunno del ’18 saranno ben piú che un’esercitazione accademica e nasceranno da una volitività personale e da una carica di disperazione storica autentiche e profonde.


1 Cfr. S. Timpanaro jr., «Le idee di Pietro Giordani», «Società», nn. 1 e 2, 1954, pp. 23-44 e 224-254, ora in Id., Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1965, 2ª ed. accresciuta, Pisa, Nistri-Lischi, 1969 (19885), pp. 41-117.

2 Cfr. P. Giordani, Sul discorso precedente [Sulla maniera e la utilità delle traduzioni, di M.me de Staël]: lettera di un Italiano ai compilatori della «Biblioteca Italiana», in Opere, a cura di A. Gussalli, 14 voll., Milano, Borroni e Scotti (poi Sanvito), 1854-63, IX, pp. 343-344: «Infelicissima fecondità che questi cantori ci nascano come le rane! Ed io [...] non avrei mai fine di lamentarmi, e di pregare l’Italia, che per dio voglia guarirsi di tale pestilenza [...] in Italia la metà almeno di quelli che sanno leggere, presumono di far versi. Non sapranno altro al mondo; ma si credono poeti. E questa vana e matta credenza è gran cagione che in tutta la vita non imparino mai cosa buona. Ogni città, ogni borgo, ogni terricciuola d’Italia tiene accademie: per far che? per esercitarsi nella lettura e nell’intendimento de’ classici? per istudiare la storia naturale o la civile del proprio paese? per trovar modi a migliorarne l’agricoltura e le arti? per fare esperienze di fisica o di chimica? [...] No no, queste sarebbero miserie, non degne a begli spiriti. Per recitare sonetti, odi, madrigali, elegie. Ma sopra tutto sonetti: questi sono il pane cotidiano, e la delizia degl’intelletti. Ma, per tutti gli dei, che farà mai al mondo un popolo di sonettanti? oh liberiamoci una volta da questa follia. Se tra noi è qualcuno che la natura propriamente abbia destinato poeta [...] non si ribelli alla natura: [...] faccia sé immortale, e gloriosa la sua nazione. Ma quei cinquecento o seicentomila facitori di righe rimate o non rimate, si traggano d’inganno; siano capaci che un mezzo milione di poeti nol può la natura produrre, nol può patire la nazione: cessino di perdere il tempo, d’essere noiosi e ridicoli; occupino l’ingegno in cose utili: studino e imparino ciò che a loro e alla patria giovi sapersi; ci lascino riposare da tanto fastidioso e vergognoso frastuono».

3 Cfr. la lettera del 23 gennaio 1841 ad Alessandro Checcucci in P. Giordani, Lettere, a cura di G. Ferretti, 2 voll., Bari, Laterza, 1937, II, pp. 152-153, e P. Giordani, I Frammenti Plautini e Terenziani, le Orazioni d’Iseo e di Temistio pubblicate dal Mai, in Opere cit., IX, p. 383.

4 Oltre che nell’edizione citata, le lettere di Giordani a Leopardi si possono leggere nell’Epistolario di Giacomo Leopardi, nuova edizione ampliata con lettere dei corrispondenti e con note illustrative, a cura di F. Moroncini, 7 voll., Firenze, Le Monnier, 1934-41 (per il periodo ora esaminato, cfr. il vol. I).

5 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 1023-1028 e 1034-1035.

6 Letta la Vita dell’Alfieri scritta da esso (Tutte le opere, I, pp. 319-320).

7 Il Diario si legge in Tutte le opere, I, pp. 353-359.

8 Cfr. Tutte le opere, II, p. 798.

9 La vita solitaria, v. 22.

10 V. Alfieri, Vita, Rime e Satire, a cura di L. Fassò, Torino, UTET, 1949, pp. 152, 128.

11 V. Alfieri, Tragedie, a cura di N. Bruscoli, 3 voll., Bari, Laterza, 1946-47, III, p. 360.

12 Tutte le opere, I, pp. 1048-1049.

13 Tutte le opere, I, pp. 353-354.

14 Tutte le opere, I, p. 359.

15 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 15-16.

16 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 320-321.

17 «te sola» è scritto in greco: τε σωλα.

18 «piacerò a te» è scritto in greco: πιαχερώ α τε.

19 Tutte le opere, I, pp. 330-331.